LA CORTE DI APPELLO O s s e r v a L'art. 1 della legge n. 46 del 20 febbraio 2006, entrata in vigore il 9 marzo 2006, ha modificato l'art. 593 c.p.p. nel senso di precludere al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento (salvo l'ipotesi eccezionale di nuove prove decisive, non verificatasi nel presente processo). L'art. 10 della stessa legge n. 46/2006 prevede poi che la legge trovi applicazione anche per i procedimenti in corso, imponendo al giudice innanzi al quale pende l'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella, di emettere ordinanza non impugnabile di inammissibilita' dell'appello. Evidente, pertanto, e' la rilevanza diretta nel presente giudizio della questione proposta dal procuratore generale dovendosi senz'altro applicare nel procedimento in esame la nuova disciplina della cui legittimita' costituzionale il procuratore generale dubita. Altrettanto deve concludersi in ordine all'ulteriore presupposto della non manifesta infondatezza della questione. L'art. 111, secondo comma Cost. dispone che il processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, «in condizioni di parita», davanti a giudice terzo ed imparziale; la disposizione censurata dal procuratore generale aveva indotto il Capo dello Stato, prima della sua definitiva approvazione, a chiedere una nuova deliberazione al Parlamento sotto vari profili ed anche a motivo che le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non dovevano mai travalicare i limiti fissati dal citato art. 111 Cost.; la norma in esame invece non sembra compatibile con il principio di ragionevolezza, desumibile dall'art. 3 della Cost., perche' senza plausibile ragione pone le parti del processo su un piano di palese disparita' sulla base dell'assioma, contrario all'esperienza giudiziaria ed alla dialettica processuale, che sempre esista un ragionevole dubbio in ordine alla responsabilita' dell'imputato sol perche' il giudice di prima istanza abbia ritenuto la sua innocenza, escludendo a priori che quello stesso giudice che puo' sicuramente errare nell'accertare la responsabilita' penale dell'imputato non puo' mai (si sottolinea: mai) fallire nell'affermarne l'innocenza; La riforma, dunque, ha varcato i limiti della ragionevolezza sottraendo ad una sola delle parti del processo, al pubblico ministero, uno strumento processuale volto a vedere affermata nel giudizio la sua pretesa punitiva, pretesa che trova esplicita legittimazione costituzionale al pari di quella dell'imputato, che invece, con la riforma, rimane pienamente titolare del potere di impugnare la decisione a lui sfavorevole, la qual cosa viola il ridetto principio posto dall'art. 111 Cost. che prevede che il processo si svolga in condizioni di parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di diritto che assicuri a ciascun soggetto processuale uguali strumenti per raggiungere gli obiettivi suoi propri, fatta salva la presunzione di innocenza che tuttavia non e' una presunzione assoluta, come sembra affermarsi con la riforma, ma relativa potendo essere superata dalla prova processuale della colpevolezza - vi e' poi da aggiungere che la riforma si applica indifferentemente a tutti i tipi di giudizio e persino contro le sentenze emesse ex art. 428 c.p.p. laddove il patrimonio probatorio valutabile non e' neppure definitivamente stabilizzato ed e' solo prospetticamente apprezzato; Peraltro la nuova disciplina crea una ulteriore irragionevole disparita' di trattamento laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l'appello contro le sentenze di proscioglimento e per altro mantiene la possibilita' per lo stesso pubblico ministero di appellare la sentenza di condanna, in tal modo tutelando un interesse processuale di ben minore consistenza; Sotto altro profilo costituzionale, si osserva che l'art. 24 della Cost. garantisce il diritto di difesa di tutte le persone e dunque non sono solo il diritto di difesa degli imputati ma anche il diritto delle parti offese dei reati; l'esercizio dell'azione penale del pubblico ministero spiega anche la funzione (ne cives ad arma veniant) di offrire alle vittime dei reati l'essenziale tutela del loro interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dal ristoro patrimoniale che non puo' dirsi, per un elementare principio etico-giuridico, di per se' compensativo dell'offesa subita, questo legittimo interesse ad avere la tutela dello Stato viene irragionevolmente compresso attraverso la limitazione del diritto di appello del pubblico ministero, peraltro con il concreto pericolo che sia affermata in sede penale l'innocenza di una persona riconosciuta da altro giudice civilmente responsabile del medesimo fatto di reato; la monetizzazione del reato inoltre creerebbe un intollerabile divario tra i cittadini in relazione al reddito ed alla capacita' patrimoniale dell'autore dell'illecito;